sábado, 21 de novembro de 2009

L’efficacia della Messa anche senza comunione dei fedeli Il problema delle derive odierne in campo liturgico ha spinto e spinge ad una ricerca più a








Il problema delle derive odierne in campo liturgico ha spinto e spinge ad una ricerca più approfondita delle cause e delle possibili soluzioni a questo problema. La prima prospettiva non può essere che teologica e nella fattispecie teologico-sistematica; il problema liturgico che tanto inquieta oggi le autorità ecclesiastiche, il Santissimo in primis, ha, nelle sue visibili e talvolta esecrabili manifestazioni, una radice teologica. Alla base del contemporaneo smarrimento, ormai evidente per tutti, vi è forse un offuscamento della vera natura del sacrificio eucaristico, che, unitamente all’oblio delle dovute distinzioni teologiche, ha portato alla considerazione della Messa, in modo parziale, quando non apertamente erroneo. L’urgenza attuale è quella di riposizionare la questione dapprima nell’alveo della teologia cattolica e dell’infallibile Magistero, per poi volgersi alla risoluzione pratica dei problemi sollevati da questo quarantennio. L’analisi che segue vuole abbordare la questione relativa all’efficacia sacrificale della Messa, all’ “ex opere operato”, alla sua efficacia cultuale “per se”, anche indipendentemente dallo stato di grazia dei fedeli o dello stesso celebrante, ed indipendentemente dalla comunione sacramentale dei presenti. La luce di San Tommaso sarà, ancora una volta, faro dell’articolata e complessa questione, che deve oggi tornare al centro del dibattito. Come la nostra linea editoriale si prefigge, l’autore non si limita ad una fredda analisi speculativa, ma propone anche una via concreta di soluzione al problema; si rimane ancora una volta sulla scorta dell’Aquinate, il quale ricorda spesso quanto teologia dogmatica e morale, sapere speculativo e sapere pratico, non siano discipline nettamente separate, ma due modi permeabili di procedere nell’unità della teologia.






Sacrosanctum Concilium e
i frutti sacrificali della Messa
di Matthieu Raffray


Scopo e limiti del rinnovamento conciliare riguardo alla partecipazione eucaristica

La costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium sulla liturgia è spesso presentata come una volontà di superare il formalismo eccessivo che caratterizzava la liturgia “post-tridentina”, a vantaggio di una partecipazione “più cosciente, attiva e fruttuosa”
[i] del Popolo de Dio al mistero che si realizza nei sacramenti, in particolare nel caso dell’Eucarestia. Uno dei principali redattori del testo, Mons. Ferdinando Antonelli, spiega che questa preoccupazione era lo scopo stesso del rinnovamento prospettato dal Concilio : "Lo scopo del rinnovamento liturgico, evocato nella Costituzione, è essenzialmente quello di condurre nuovamente i fedeli ad un partecipazione cosciente e attiva alla vita liturgica, in particolare alla messa che è il centro della liturgia”[ii].

Questo rinnovamento voleva in primo luogo prendere le distanze dalle lacune della liturgia dell’epoca tridentina : "La concezione che i Padri di Trento avevano della liturgia presenta certo elementi positivi, ma era ormai decisamente superata”, a causa della sua assenza di scientificità critica, a causa dell’importanza attribuita all’aspetto esteriore della cerimonie “a detrimento dell’anima della liturgia”, dell’ “attaccamento all’aspetto secondario del rito” o ancora a causa di una “vera cristallizzazione dei riti e delle rubriche, la qual cosa nuoce alla partecipazione dei fedeli, essendo contraria alla natura della liturgia”. Tutte queste cause avrebbero causato, secondo Antonelli, la clericizzazione della liturgia: “I fedeli sono dei semplici spettatori obbligati ad assistere senza comprendere e senza prendere parte a ciò che si svolge”[iii].


Nel caso della liturgia eucaristica, nello scopo di mettere in opera lo sperato rinnovamento, il testo conciliare raccomanda quindi con forza “questa perfetta partecipazione alla messa che consiste nel fatto che i fedeli, dopo la comunione del sacerdote, ricevano il corpo del Signore nello stesso sacrificio”[iv].

Sulla stessa scia, i Padri conciliari insistono sul valore comunitario della Messa e favoriscono le liturgie celebrate attorno alla comunità riunita, a detrimento della “messe private”[v].

Le riforme che hanno seguito il testo, più di quarantacinque anni dopo la promulgazione della Sacrosanctum Concilium, hanno dimostrato, nella loro applicazione concreta, un certo numero di limiti: è la constatazione che faceva lo stesso papa Giovanni Paolo II, mettendo in relazione nella sua ultima enciclica “la riforma liturgica del Concilio” e “una comprensione molto riduttiva del mistero eucaristico” : “non c’è dubbio che la riforma liturgica del Concilio ha prodotto dei grandi benefici di partecipazione più cosciente, più attiva e fruttuosa dei fedeli al santo Sacrificio dell’altare (…). Purtroppo le ombre non mancano. Ci sono in effetti dei luoghi nei quali si nota un abbandono quasi totale del culto dell’adorazione eucaristica. A questo si aggiungono, in tale o talaltro contesto ecclesiale, degli abusi che contribuiscono ad oscurare la retta fede e la dottrina cattolica riguardo a questo ammirabile Sacramento. A volte si fa avanti una comprensione molto riduttiva del mistero eucaristico. Privato del proprio valore sacrificale è vissuto come se non andasse aldilà del senso e del valore di un incontro conviviale e fraterno. Inoltre, la necessità del sacerdozio ministeriale, che si fonda sulla successione apostolica, è a volte oscurata, e il carattere sacramentale dell’Eucarestia è ridotto alla sola efficacia dell’annuncio. Da qui, qua e là, delle iniziative ecumeniche che, sebbene suscitate da un’intenzione generosa, si lasciano andare a delle pratiche eucaristiche contrarie alla disciplina nella quale la Chiesa esprime la sua fede. Come non manifestare una profonda sofferenza di fronte a tutto ciò? L’Eucarestia è un dono troppo grande per poter sopportare ambiguità e riduzioni”[vi].

La praxis liturgica attuale, che non può essere ridotta a casi particolari – soprattutto se si tratta di abusi – riflette tuttavia una certa percezione, tanto da parte dei fedeli che da parte del clero, della necessità, del fine e dell’efficacia dell’azione eucaristica, e dunque è specchio di una certa teologia sacramentale: molte pratiche liturgiche abituali, così come gli abusi e i derivati che sono oggi frequenti, riflettono in fin dei conti una riduzione dell’idea del profitto spirituale legato ai frutti sacrificali dell’Eucarestia[vii].

Queste pratiche, seppur non rispondano alla stretta messa in opera delle direttive conciliari, e ancor meno all’intenzione dei Padri del Concilio, sono tuttavia caratteristiche di un’assenza di chiarezza teologia, che bisogna forse attribuire al testo del Concilio, nella misura in cui è il senso stesso del mistero eucaristico che sembra velarsi.

La preoccupazione conciliare di rimettere al centro dell’azione liturgica la partecipazione dei fedeli in vista di prendere parte più perfettamente ai frutti della Messa ci porta dunque ad interrogarci sull’efficacia del sacramento dell’Eucarestia, cioè sul modo e la misura secondo la quale il Popolo di Dio beneficia dei frutti di una celebrazione eucaristica. Come abbiamo detto, gli autori di Sacrosanctum Concilium avevano la volontà di prendere nettamente le distanze dalla liturgia post-tridentina, ai loro occhi troppo formalista, al punto da far perdere di vista la finalità eucaristica[viii].

In vista di oltrepassare una tale opposizione, può essere utile interrogare, la teologia sacramentaria di San Tommaso d’Aquino: una lettura approfondita degli articoli della IIIa pars concernenti il sacramento dell’Eucarestia, lettura effettuata nell’ottica particolare delle condizioni della fecondità sacramentale, ci permetterà di comprendere in qual misura e in che casi i frutti dell’Eucarestia sono prodotti, e a quali condizioni si applicano. Questa rilettura ci permetterà, in conclusione, di mettere in evidenza il legame fra pratica liturgica e teologia sacramentale.


L’efficacia sacramentale in San Tommaso d’Aquino

La stessa struttura del trattato “De sacramentis in genere” alle questioni 60-65 della IIIa Pars mette in evidenza i fondamenti della teologia sacramentaria tommasiana: la questione 62 tratta dell’ “effetto principale dei sacramenti, che è la grazia” e la questione 63 porta sull’ “effetto secondo del sacramento che è il carattere”. Questi due elementi, grazia e carattere, permettono a San Tommaso di articolare formalità e finalità dei sacramenti, attorno alla questione primordiale dell’efficacia dei segni sacramentali e della loro condizione di realizzazione fruttuosa: l’importanza di una tale struttura non è di poco conto – ed è ciò che vorremmo dimostrare, in particolare attraverso la comparazione con il testo delle Sentenze.

E’ noto che è adottando la distinzione tra opus operatum e opus operantis (o opus operans) – consacrata più tardi dal Concilio di Trento sotto la formula ex opere operato [ix] – che San Tommaso differenziava nel suo Commentario delle Sentenze il valore oggettivo del sacramento dagli effetti legati ai meriti del ministro che lo compie. E’ precisamente in quanto i sacramenti sono causa strumentale della grazia che questa distinzione diventa possibile: l’efficacia del sacramento non dipende dal ministro che lo realizza come dalla sua causa principale, ma piuttosto da Dio, la cui azione è infallibile. Questa doppia causalità comporta un doppio livello d’efficacia che bisogna caratterizzare chiaramente, perché lo strumento può, se mal utilizzato, mal disposto o se è difettoso, costituire un ostacolo all’efficacia divina. La cosa è chiara quando si compara l’efficacia dei sacramenti a quella della preghiera:

«Nella preghiera, colui che prega è come l’agente principale, e non solo come l’agente
strumentale. Dunque perché la preghiera sia efficace, si richiede che rilevi dall’effetto ex opere operante, e non solo dall’ ex opere operato, come è il caso dei sacramenti»[x].

Così dunque la grazia è causata strumentalmente nell’anima, ex opere operato, a partire dal momento in cui il sacramento è realizzato nelle condizioni richieste (materia, forma e intenzione), e dunque indipendentemente dalla sua qualità propria e dalla sua devozione personale. Bisogna intendere questa espressione conformemente all’intenzione del Dottore angelico, non nel senso di un’efficacia infallibile, quasi magica, ma piuttosto nel senso di un’efficacia per se, nel senso in cui l’inefficacia di un sacramento, quando è valido, non può venire che da un obex esterno, che impedisce che la grazia si applichi all’anima. Questa precisazione è di capitale importanza, perché lascia aperta la questione dell’applicazione dei frutti del sacramento, nel caso in cui incontri un tale ostacolo. I testi del Commentario mancano, in questo punto, di precisazioni.

Paradossalmente, nella Summa Teologica, l’espressione ex opere operato non appare neanche una sola volta, sebbene la stessa dottrina della causalità strumentale vi sia largamente sviluppata. La ragione è, a nostro avviso, la sistematizzazione dottrinale che caratterizza questo trattato, e che è la principale innovazione in rapporto ai corrispondenti del Commentario della Sentenze e della Summa contro i Gentili [xi]; nel nostro testo, San Tommaso tratta in maniera organica dei sacramenti in generale, fin dalla prima questione del trattato, intorno alla distinzione dei due aspetti sotto i quali l’uso dei sacramenti deve essere studiato: il culto divino e la santificazione dell’uomo:

«Si possono considerare due aspetti nella pratica dei sacramenti : il culto divino e la
santificazione dell’uomo. Il primo punto di vista riguarda l’uomo nei suoi rapporti con Dio. Il secondo, al contrario, riguarda Dio nei suoi rapporti con l’uomo »[xii].

Se posiziona l’aspetto della santificazione all’inizio della trattazione (la grazia è “l’effetto principale del sacramento”), non riduce tuttavia l’altro aspetto, perché la dimensione cultuale dei sacramenti deriva direttamente dall’azione di Dio nell’anima. Si capisce qui l’importanza della dottrina del carattere sacramentale impresso nell’anima: non già per il profitto spirituale di colui che lo riceve, ma soprattutto per compiere validamente le azioni cultuali che Cristo ha istituito e scelto. Il carattere è così il sigillo della nostra deputazione da parte di Dio a rendergli un culto in spirito e verità, aspetto ascendente della finalità del sacramento, inseparabile dal suo aspetto discendente, la santificazione dell’anima. L’una e l’altra finalità dei sacramenti, santificazione e culto, non possono essere dissociate, perché esse trovano il loro fondamento nei segni sacramentali: “i sacramenti della fede sono simultaneamente segni della santificazione e segni di culto. La santificazione e il culto sono resi efficaci secondo l’economia della significazione sacramentale; solo la nozione di segno permette la loro connessione (…) L’uomo del culto della nuova legge non è dunque solo recettore dei segni sacramentali, ma è anche, in virtù della dimensione cultuale inerente a questi segni, soggetto delle azioni liturgiche»
[xiii].

Si può quindi affermare che l’introduzione della finalità cultuale della sacramentalità è il « motivo chiave dell’ultima sinfonia sacramentale di Tommaso”[xiv], nel senso in cui essa dà una prospettiva più completa dell’insieme della teologia sacramentale, e permette così di meglio comprendere l’articolazione tra fruttuosità ed efficacia dei sacramenti. Tommaso applicherà questa doppia finalità, ed è ciò che vedremo ora, alla risoluzione dei problemi concreti legati alla fecondità sacramentale.




La doppia finalità sacramentale nel caso dell’Eucarestia

«Il sacramento che concerne il culto divino nella stessa azione sacramentale, è l’Eucarestia
in cui consiste il culto divino come nel suo principio, in quanto essa è sacrificio della Chiesa»[xv].

Caratterizzando in questa maniera il sacramento dell’Eucarestia, San Tommaso lo posiziona con fermezza al cuore della doppia finalità dei sacramenti, culto e santificazione. E’ lì che si realizza più pienamente e più perfettamente, tanto il “principio” del culto divino, poiché è il sacrificio della Chiesa, quanto la più autentica santificazione, poiché procura all’anima la sorgente e la causa stessa di ogni grazia. E’ d’altronde a causa di quest’aspetto cultuale che il sacramento dell’Eucarestia è il più importante del settenario
[xvi].

L’argomento è di un certo spessore, ed implica nel trattato tomista un certo numero di importanti conseguenze. In particolare in rapporto all’opportunità di celebrare l’Eucarestia, che San Tommaso rapporta direttamente a questa doppia finalità, per dedurne che un sacerdote non può astenersi totalmente dal celebrare, nemmeno se fosse completamente privo dell’obbligo di cura d’anime, perché è in obbligo verso Dio: “l’opportunità di offrire il sacrificio non è da considerare soltanto in rapporto ai fedeli di Cristo, ai quali bisogna amministrare i sacramenti, ma a titolo principale in rapporto a Dio, a cui questo sacrificio è offerto nella consacrazione di questo sacramento”[xvii].

E’ lo stesso fondamento che permette anche di risolvere la questione dell’estensione del profitto che deriva dalla celebrazione di una messa: in quanto azione cultuale, l’efficacia del sacrificio moltiplicata dal numero di messe, poiché è ogni volta una nuova offerta che si compie; in quanto sacramento, al contrario, il numero di ostie consacrate, o la moltiplicazione delle comunioni nel corso della stessa messa non aumenta la presenza sacramentale[xviii]. Quanto alla comunicazione dei frutti dell’Eucarestia, essa è esplicitata precisamente sulla base di questa distinzione tra le due finalità dell’atto sacramentale:

« Così dunque questo sacrificio è proficuo a coloro che lo consumano per modo di
sacramento, e per modo di sacrificio, perché è offerto per tutti coloro che lo consumano (…) Ma agli altri, che non lo consumano, esso è proficuo per modo di sacrificio, in quanto è offerto per la loro salvezza »[xix].

In ultimo resta da aggiungere che, nel suo aspetto sacrificale, il valore della messa non dipende dal valore del prete che la celebra, non solo in quanto l’azione è realizzata ex opere operato, ma anche nella misura in cui il prete agisce in quanto ministro della Chiesa. In effetti quando esamina il valore della messa di un cattivo sacerdote (q. 82, a.6), San Tommaso applica i principi che valgono per tutti i sacramenti, ma li completa aggiungendo una distinzione fondata ancora una volta sull’aspetto sacrificale della messa, nella sua finalità impetratoria:

«In ciò che concerne il sacramento, la messa di un cattivo sacerdote non vale meno di
quella di uno buono, perché da una parte e dall’altra, è lo stesso sacrificio ad essere consacrato. Inoltre la preghiera che si fa alla messa può ancora essere considerata sotto due punti di vista. Da una parte, in quanto essa trae la propria efficacia dal prete che prega. E sotto questo punto di vista è fuor di dubbio che la messa di un miglior prete è più fruttuosa. Da un’altra parte, in quanto la preghiera è pronunciata alla messa dal prete che rappresenta tutta la Chiesa, di cui è ministro. Ora questo ministero sussiste anche tra i peccatori, come l’abbiamo detto nell’articolo precedente, a proposito del servizio di Cristo »[xx].

Così dunque in quanto le sue preghiere sono fatte in persona ecclesiae, il cattivo sacerdote non influisce sul frutto che ne deriva, e Dio esaudisce le sue richieste, in nome della Chiesa che Lo prega. Il corollario è, di contro, che la messa di un ministro separato dalla Chiesa, eretico, scismatico o scomunicato, in maniera formale e colpevole, benché sia valida dal punto di vista sacramentale e vera dal punto di vista sacrificale, non potrebbe essere efficace quanto alle preghiere fatte dal sacerdote che esse siano private o fatte in nome della Chiesa
[xxi]. Ciò significa che il valore cultuale del sacrificio è anche più importante, dal punto di vista della fecondità, che non il valore puramente sacramentale dell’Eucarestia. Ne consegue che è insufficiente porre la totalità – e forse anche l’essenziale – dei frutti dell’Eucarestia nella consumazione sacramentale: sarebbe mancare una delle finalità maggiori della messa, e impedire, per questa stessa ragione, di comprendere, nella prospettiva tomista, la fecondità del sacrificio offerto a Dio, nella sua efficacia eucaristica, latreutica, impetratoria e propiziatoria.





Come approfittare più abbondantemente dei frutti eucaristici?

In conclusione, resta da interrogarsi sulla distinzione tra i frutti del sacrificio e i frutti del sacramento: poiché l’ opus operatum del sacramento consiste nel ricevere passivamente da Dio, mentre l’ opus operatum del sacrificio, consiste nell’offrire in maniera attiva a Dio, i frutti sono necessariamente diversi. Nel sacramento, il frutto è la santificazione dell’anima, che riceve la grazia consumando le specie eucaristiche. Nel sacrificio l’ “opus operatum” non pone niente: né grazia, né dono. Quale dunque la natura dei frutti sacrificali? Il sacrificio rende a Dio la lode e l’onore che gli sono dovuti, operando così per noi, a titolo di causa morale infallibile, e anteriormente all’azione dei sacramenti, l’accesso alla misericordia e alla bontà di Dio che giustifica l’anima, o che la fa progredire nella perfezione. Questa differenza di natura tra frutti del sacramento e frutti del sacrificio mette in evidenza in maniera ancor più significativa, la ricchezza di questa doppia finalità: non soltanto dal punto di vista del numero di coloro che profittano di questi frutti, m anche in ciò che concerne la fecondità per l’anima del fedele che beneficia di tali frutti.

L’esame attento della teologia sacramentale tomista ci ha dunque permesso di mettere in evidenza l’importanza dell’aspetto cultuale dei sacramenti, e in particolare dell’Eucarestia. Questa lettura ci porta allora a rimettere in discussione la tentazione moderna di far passare in secondo piano la finalità sacrificale del culto divino, in particolare a causa delle conseguenze di una tale visione della fecondità eucaristica. Ora, bisogna riconoscere che numerosi teologi contemporanei, se non hanno abbandonato, sotto l’influenza dei pensatori “riformati”, in maniera pura e semplice la natura sacrificale della messa, hanno tuttavia voluto concentrare il “Mysterium fidei” sul suo atto puramente sacramentale, pretendendo così rendere più fruttuosa la partecipazione eucaristica. Era questa, nel migliore dei casi, un’illusione.

Si percepisce dunque la necessità di rimettere in evidenza, non solo dal punto di vista teorico, ma anche nella pratica liturgica, il valore intrinseco del Santo Sacrificio della messa, indipendentemente dalla partecipazione sacramentale. In questo modo tutta la Chiesa, e il popolo cristiano in primo luogo, avrà veramente beneficio in maniera “più cosciente, attiva fruttuosa”, secondo gli auspici dei Padri conciliari, della fecondità del mistero eucaristico.

Come agire? Prima di tutto, rimettendo al centro della liturgia il suo aspetto sacrificale, che è uno degli scopi della diffusione, voluta dal Papa Benedetto XVI, della celebrazione della messa detta “di San Pio V”, che esprime perfettamente questo carattere sacrificale, come lo testimoniava il segretario della Congregazione per il Culto, Mons. Albert Malcom Ranjith, qualche tempo dopo la pubblicazione del motu proprio “Summorum Pontificum”.


Alcune di queste riforme hanno abbandonato importanti elementi della Liturgia con le relative considerazioni teologiche: ora è necessario e importante recuperare questi elementi. Il Papa, considera il rito di San Pio V (…) una via di recupero di quegli elementi offuscati dalla riforma, (…) non è tanto, come dicono alcuni, un ritorno al passato, quanto il bisogno di riequilibrare in modo integro gli aspetti eterni, trascendenti e celesti con quelli terrestri e comunitari della liturgia. [xxii]







[i] Sacrosanctum Concilium, n. 11
[ii] Ferdinando Antonelli, La costituzione Conciliare sulla Sacra liturgia. Antecedenti e grandi principi (lezioni di liturgia, 26 décembre 1964), in Archives de La Verne – fonds Antonelli, p. 4, cité par Nicolas Giampietro, Le cardinal Ferdinando Antonelli et les développements de la réforme liturgique de 1948 à 1970, éd. Le Forum, coll. Liturgie, Versailles, 2004, p. 266.
[iii] Ferdinando Antonelli, Antecedenti, principi e scopo della ostituzione conciliare sulla Sacra Liturgia (lezioni di liturgia, 12 janvier 1965), in Archives de La Verne – fonds Antonelli, p. 3-4.
[iv] SC, n. 55 ou encore SC, n. 48 : « Aussi l'Église se soucie-t-elle d'obtenir que les fidèles n'assistent pas à ce mystère de la foi comme des spectateurs étrangers ou muets, mais que, le comprenant bien dans ses rites et ses prières, ils participent consciemment, pieusement et activement à l'action sacrée, soient formés par la parole de Dieu, se restaurent à la table du Corps du Seigneur, rendent grâce à Dieu ».
[v] SC, n. 27 : « Chaque fois que les rites, selon la nature propre de chacun, comportent une célébration commune, avec fréquentation et participation active des fidèles, on soulignera que celle-ci, dans la mesure du possible, doit l'emporter sur leur célébration individuelle et quasi privée. Ceci vaut surtout pour la célébration de la Messe (bien que la Messe garde toujours sa nature publique et sociale), et pour l'administration des sacrements ».
[vi] Jean-Paul II, Ecclesia de Eucharistia, 17 avril 2003, n.10.
[vii] On peut mentionner, parmi ces limites concrètes : la perte du sens du sacré et la banalisation des célébrations ; la lassitude des fidèles face aux sollicitations des prêtres pour participer aux célébrations, parfois de façon incongrue ; la disparition presque totale des messes quotidiennes dites « privées » ; la raréfaction du nombre de messes en faveur des concélébrations, même dans des cas de pénurie de prêtres ; la disparition des gestes d’adoration dus au Saint-Sacrement ; la facilité de s’approcher de la table de communion sans être dans les conditions spirituelles nécessaires pour recevoir dignement les saintes espèces, avec comme corollaire l’incompréhension face au refus de la communion, par exemple dans le cas des divorcés-remariés ; les gestes œcuméniques d’intercommunion, même contre le droit de l’Église ; etc.
[viii] Cf. Jean-Michel Garrigues, « La complémentarité de l’Esprit par rapport au Christ dans la vie sacramentelle », Revue Thomiste, 2006/4, 565-585 (en part. p. 569).
[ix] Ces formules remontent vraisemblablement au début du XIIIème siècle : on les trouve chez Pierre de Poitiers, disciple de Pierre Lombard, qui applique cette distinction dans le cas du baptême, afin de démontrer que la valeur de ce sacrement est indépendante des mérites du ministre et de ceux du sujet. Cf. Sententiarum, lib. V, cap. VI (PL 216, 1235) ; elles sont ensuite généralisées par Innocent III, De Ss. altaris mysterio, lib. III, cap. V (PL 227, 843) et adoptées par s. Bonaventure et s. Thomas d’Aquin. Le Concile de Trente s’exprime ainsi : “Si quis dixerit per ipsa Novae Legis sacramenta ex opere operato non conferri gratiam, sed solam fidem divinae promissionis ad gratiam consequendam sufficere, anat. sit” (Sess. VII, De sacramentis in genere, can. 8, DzB 851). Cf. A. Michel, “Opus operatum, opus operantis”, DTC XI/1, 1931, col. 1084-1087.
[x] In IV Sententiarum, dist. 5, q. 2, a. 2, qc. 2, ad 2 : “Ad secundum dicendum, quod in oratione orans est sicut principale agens, non solum sicut instrumentale ; et ideo requiritur ad efficaciam orationis quod ex opere operante effectum sortiatur, non solum ex opere operato, sicut est in sacramentis”.
[xi] Contra Gentes, IV, 56-58.
[xii] IIIa, qu. 60, a. 5, corpus : “In usu sacramentorum duo possunt considerari, scilicet cultus divinus, et sanctificatio hominis, quorum primum pertinet ad hominem per comparationem ad Deum, secundum autem e converso pertinet ad Deum per comparationem ad hominem” – traduction A.-M. Roguet, Les sacrements, éd. de la Revue des jeunes, 1959.
[xiii] Franck M. Quoëx, Les actes extérieurs du culte dans l’histoire du salut selon saint Thomas d’Aquin – Dissertatio ad lauream in Fac. S. Theologiae apud Pontificiam Universitatem S. Thomae, Rome, 2001, pp. 224-225.
[xiv] M. Turrini, L’anthropologie sacramentelle de s. Thomas d’Aquin, Université de Paris Sorbonne, 1996, p. 108.
[xv] IIIa, qu. 63, a. 6, corpus.
[xvi] « Ce sacrement l’emporte sur les autres en ce qu’il est sacrifice », IIIa, qu. 79, a. 7, ad 1m.
[xvii] IIIa, qu. 82, a. 10, corpus ; cf. aussi Ibid., ad 1m.
[xviii] IIIa, qu. 79, a. 7, ad 3m.
[xix] IIIa, qu. 79, a. 7, corpus.
[xx] IIIa, qu. 82, a. 6, corpus.
[xxi] IIIa, qu. 82, a. 7, ad 3m. Il reste à préciser ici que pour le cas d’un prêtre schismatique ou hérétique de façon non-coupable, donc en état de grâce, les prières faites au nom de l’Église dont il est séparé ne sont pas efficaces, tandis que sa prière privée, elle, reste fructueuse.
[xxii] Mgr Albert Malcom Ranjith, Agence Fides, 16/11/2007